2689
Adibizione a mansioni inferiori in alternativa al licenziamento
Corte di Appello di Firenze, Sezione Lavoro, 6 aprile 2022
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale
La pronuncia in commento affronta il caso di un addetto alla manutenzione di vari impianti, che era stato assegnato al reparto di produzione filling con adibizione a un unico macchinario di riempimento di insulina e lamentava il demansionamento subito con conseguente pretesa di risarcimento del danno subito. La società resistente eccepiva l'equivalenza professionale delle nuove mansioni svolte dal prestatore di lavoro e argomentava come il mutamento di mansioni fosse stato determinato dall'esternalizzazione della manutenzione dei grandi impianti con conseguente esubero di quattro addetti meccanici, tra i quali vi era il ricorrente, che erano stati assegnati ad altri reparti al fine della conservazione dei loro impieghi.
Orbene, il Giudice di primo grado, accertava l'equivalenza professionale delle mansioni svolte, in ragione dell'art. 2103 c.c., e comunque, anche a ritenere diversamente, specificava dome ben il datore potesse adibire il lavoratore a mansioni diverse al fine di mantenere in essere il rapporto di lavoro nell'ambito di una legittima scelta di gestione aziendale.
Il dipendente impugnava quindi la pronuncia innanzi la Corte di Appello di Firenze, la quale, pur confermando che, qualora la posizione lavorativa di un dipendente risulti eccedentaria, è possibile adibire il dipendente a mansioni inferiori rispetto a quelle del suo livello di inquadramento, nel caso di specie, discostandosi dal Giudice di prime cure, riteneva che la società resistente non avesse dimostrato tale circostanza, poiché, a fronte di nuove assunzioni di tecnici effettuate nel tempo, non aveva provato la non costituzione di posti di lavoro al reparto manutenzione ove il ricorrente avrebbe potuto essere impiegato.
La Corte non accoglieva, invece, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da demansionamento sostenendo "la prova di questo di danno è pur sempre necessaria, non essendo conseguenza automatica dell'adibizione a mansioni inferiori; soprattutto quando, come nel caso in esame, non vi è una distanza particolarmente rilevante, qualitativamente, tra le nuove mansioni e quelle di provenienza. Vero è che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la prova può essere data anche con presunzioni, ma queste presuppongo pur sempre l'allegazione di più elementi che siano gravi, precisi e concordanti". Così come, in relazione al lamentato danno alla reputazione professionale il Giudice di secondo gravo rilevava come tale danno non potesse ritenersi presunto "dal momento che, lo spostamento ad un altro reparto ha avuto luogo nell'ambito di una esternalizzazione della gran parte delle attività manutentive, ed ha riguardato quindi anche altri lavoratori; sicchè non può darsi per scontato che sia stato percepito nell'ambiente di lavoro come una valutazione negativa della professionalità del ricorrente".
Se dunque è oramai orientamento consolidato (in ragione peraltro di quanto espressamente disposto dall’art. 2103 c.c.) che il demansionamento sia legittimo ove sia l’unica alternativa al licenziamento, è altrettanto vero che la stessa Corte di Cassazione (v. sent. 10023/19) ha chiarito che il datore di lavoro può legittimamente porre fine al rapporto di lavoro a fronte di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ma che “ove non avesse esercitato tale potestà, non poteva mantenere in vita un rapporto nel quale la professionalità del lavoratore fosse pregiudicata dalla totale assenza di mansioni”. In tal caso, dunque, il datore avrebbe agito correttamente ove avesse proceduto con la risoluzione del rapporto, anziché con il demansionamento.
Pertanto, ferma restando la legittimità del demansionamento quale alternativa alla risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro, nel porre in essere tale operazione, è comunque tenuto a verificare che vi siano i presupposti del licenziamento e che l’adibizione a mansioni inferiori non comporti una totale privazione dei compiti, ledendo tale ultima condotta i diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale, tanto da non poter essere considerata un’alternativa neppure alla risoluzione del rapporto.