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La tutela infortunistica nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro.
Quale comportamento deve tenere il datore di lavoro
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale
Sono pervenuti numerosi quesiti in merito al riconoscimento della tutela infortunistica INAIL in caso di contrazione del Covid da parte del personale delle strutture sanitarie, sia in ordine all’attuale vigenza o meno delle disposizioni che equiparano la malattia Covid all’infortunio sul lavoro, sia in ordine alle modalità con cui è tenuto ad operare il datore di lavoro in tale ipotesi.
Orbene, com’è noto, l’INAIL, con circolare n. 13 del 3 aprile 2020, ha chiarito che l’ambito di applicazione dell’art. 42 co. 2 del D.L. 18/2020 conv. il L. 27/2020 (“Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”) riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. Ad una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte – secondo la circolare - anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza (“In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc”). Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.
La tutela INAIL opera anche nel caso di contagio contratto durante il tragitto casa-lavoro.
La circolare chiarisce che, nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico deve trasmettere telematicamente la consueta certificazione medica all’INAIL, come per i casi di infortunio ordinario, riportando la data dell’evento/contagio, la data di astensione dal lavoro per inabilità temporanea assoluta ovvero la data di astensione dal lavoro per quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria, sempre legata all’accertamento dell’avvenuto contagio. Solo in presenza di certificazione di avvenuto contagio unitamente al requisito dell’occasione di lavoro, è possibile giungere alla qualificazione di infortunio. Secondo l’INAIL, dunque, per certificare l’avvenuto contagio è valida qualsiasi documentazione clinico-strumentale in grado di attestare, in base alle conoscenze scientifiche, il contagio stesso.
La cennata circolare tuttavia non fuga i dubbi in merito al riconoscimento dell’origine professionale del contagio, tant’è che, con successiva n. 22 del 20 maggio 2020, l’INAIL ha fornito ulteriori istruzioni operative e chiarimenti su problematiche sollevate da più parti.
In particolare, è stato chiarito che “la mancata dimostrazione dell’episodio specifico di penetrazione nell’organismo del fattore patogeno non può ritenersi preclusiva della ammissione alla tutela, essendo giustificato ritenere raggiunta la prova dell’avvenuto contagio per motivi professionali quando, anche attraverso presunzioni, si giunga a stabilire che l’evento infettante si è verificato in relazione con l’attività lavorativa”.
Tuttavia, ciò non comporta che vi sia un automatismo tout court, poiché “occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale, ferma restando la possibilità di prova contraria a carico dell’Istituto”.
In altri termini, la presunzione semplice che - si ribadisce - ammette sempre la prova contraria, presuppone comunque l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, ecc.). In tale contesto, l’INAIL valuta tutti gli elementi acquisiti d’ufficio, quelli forniti dal lavoratore nonché quelli prodotti dal datore di lavoro, in sede di invio della denuncia d’infortunio contenente tutti gli elementi utili sulle cause e circostanze dell’evento denunciato. “Il riconoscimento dell’origine professionale del contagio, si fonda in conclusione, su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio”.
In buona sostanza, la presunzione semplice non elimina la necessità che l’istruttoria medico-legale contempli, caso per caso, le seguenti verifiche:
1. livello di rischio dell’attività lavorativa effettivamente svolta (evidenze tecnico-scientifiche, casistica);
2. dettaglio di luogo e tempi di lavoro; analisi dei compiti e delle mansioni effettivamente prestati; rilievo dell’anamnesi; informazioni formalmente pervenute dal datore di lavoro; risultanze di eventuali indagini ispettive sull’adozione delle misure di contenimento);
3. coincidenza tra dato epidemiologico territoriale e picco epidemico/pandemico e contagio (tempi di latenza sintomatologica/incubazione). Analogamente rileva il criterio epidemiologico aziendale, relativo alla presenza di altri lavoratori sul medesimo luogo di lavoro contagiati per esposizione riconducibile all’attività lavorativa (anche in questo caso con valutazione del criterio cronologico e del periodo di latenza);
4. prova contraria.
In quest’ultimo caso l’istruttoria dovrà accertare l’interferenza di fattori o cause esterne al rapporto di lavoro, quali: presenza di contagi familiari (con valutazione del criterio cronologico e del periodo di latenza); modalità di raggiungimento del luogo di lavoro, che potrebbe non giustificare il contagio professionale [sia per infortunio in occasione di lavoro e tanto più per quello in itinere (durante gli spostamenti da e per il luogo di lavoro, il luogo di abituale consumazione dei pasti, etc.).
Tali accertamenti, tuttavia, non possono essere effettuati dal datore di lavoro, bensì dall’INAIL. Ed infatti, il datore di lavoro, in caso di infortunio con prognosi superiore a tre giorni, è obbligato a denunciarlo all’Inail ai fini dell’assicurazione obbligatoria, indipendentemente da ogni valutazione circa la ricorrenza degli estremi di legge per l’indennizzabilità. Così afferma la circolare Inail n. 24 del 9 settembre 2021, la quale specifica che l’obbligo di denuncia a carico del datore, nel caso di contagio da Covid-19, presuppone che il datore di lavoro sia a conoscenza che l'evento vada qualificato come infortunio e non come malattia di competenza dell'Inps: i termini di denuncia (due giorni) decorrono pertanto dalla ricezione della prima certificazione medica in cui si attesta che l'astensione assoluta dal lavoro sia riconducibile al contagio. Se dunque il datore riceve la certificazione attestante la mera malattia dovrà trattarla come tale e non come infortunio.
In tal caso, dunque, il datore dovrà obbligatoriamente effettuare la denuncia, riportando, tuttavia, ove ne sia a conoscenza, gli elementi che non riconducono il contagio all’"occasione di lavoro”, per le valutazioni del caso da parte dell’INAIL, la quale, se non ravviserà gli estremi dell’infortunio, trasmetterà la documentazione all’INPS.
La disciplina sopra enunciata è tuttora vigente, ma si segnala che, in un’ottica di maggior tutela, il Comitato consultivo dell'UE per la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro (CCSS), ha raggiunto un accordo sulla necessità di riconoscere il COVID-19 come malattia professionale nei settori dell'assistenza socio-sanitaria e dell'assistenza a domicilio nonché, in un contesto pandemico, nei settori in cui sono maggiori le attività con un rischio accertato di infezione. A seguito del parere del CCSS, la Commissione aggiornerà l’elenco delle malattie professionali di tal che ai lavoratori dei settori pertinenti che hanno contratto la malattia sul luogo di lavoro potranno essere riconosciuti diritti specifici in base alle normative nazionali, come il diritto all'indennizzo.