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Legittimo il licenziamento per superamento del comporto del lavoratore disabile
Una volta assolto l'obbligo di garanzia della salubrità delle condizioni di lavoro, rapportate, in termini di correttezza e ragionevolezza, alle particolari condizioni di salute del disabile assunto come invalido civile, nessuna diversità di trattamento tra soggetti invalidi e non affetti da disabilità è più consentita, quanto alla determinazione del periodo di comporto
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale
Le due recentissime sentenze oggi in commento affrontano casi analoghi, ed ossia l’impugnativa del licenziamento operato per superamento del periodo di comporto da parte di due lavoratrici invalide, le quali lamentavano la discriminatorietà e/o illegittimità della risoluzione, essendo – a loro dire – i giorni di assenza da ricondursi alle patologie per le quali era stato riconosciuto lo stato di invalidità o comunque di handicap.
A sostegno delle loro tesi, entrambe le ricorrenti richiamavano la normativa comunitaria in materia di discriminazione diretta e indiretta (Direttiva UE 2000/78/CE), nonché le sentenze rese sul tema dalla Corte di Giustizia Europea, sostenendo che i rispettivi datori di lavoro, essendo tenuti ad adottare gli “accomodamenti ragionevoli” al fine di “garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri dipendenti”, avrebbero dovuto escludere dal computo del periodo di comporto i giorni di assenza riconducibili all’invalidità ovvero all’handicap, per i quali le ex dipendenti erano state dichiarate invalide, con conseguente mancato superamento del periodo di comporto.
Entrambi i Tribunali, con simili motivazioni, confermavano le rispettive ordinanze rese nella fase sommaria, rigettando, sulla base di plurime argomentazioni, le opposizioni promosse dalle lavoratrici.
Innanzitutto, veniva esaminata la giurisprudenza comunitaria sul tema, la quale, seppur valorizzando la circostanza che il lavoratore affetto da disabilità fosse in linea di principio, maggiormente esposto al recesso per superamento del comporto, in quanto soggetto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla disabilità, riservava comunque agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità in ordine ai ragionevoli accomodamenti da adottare per tutelare il lavoratore affetto da handicap.
Secondo il Tribunale di Vicenza, infatti: “in relazione allo scomputo dei giorni di malattia dovuti alla patologia dal calcolo del periodo di comporto, anche alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza comunitaria, si ritiene che la nozione di disabilità introdotta dalla direttiva comunitaria non preveda una tutela assoluta in favore del soggetto disabile, dovendosi salvaguardare il bilanciamento degli interessi contrapposti: da un lato l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro adeguato al suo stato di salute, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; d'altro lato l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa, tenuto conto che l'art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998). La stessa direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, "non prescrive ... il mantenimento dell'occupazione ... di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione" (sent. CGUE 11/09/2019 n. 397 cit.; sent. CGUE 11 aprile 2013, HK Danmark, cause riunite C-335/11 e C-337/11)”.
Di analogo tenore le argomentazioni del Tribunale di Bologna, che seppur non ignorando che “parte della giurisprudenza di merito, con motivazioni ampiamente argomentate, ha sostenuto le tesi propugnata da parte ricorrente (vedasi Corte Appello Genova, sent 211/2021, Tribunale di Verona, ordinanza del 21/03/2021, Tribunale di Mantova, sent. 22 settembre 2021, n. 126”, riteneva comunque di aderire alla ricostruzione offerta da altra giurisprudenza (v. Corte di Appello Palermo sent. 14 febbr. 2021; Corte appello Torino n. 604 3 nov. 2021), specificando quanto segue ”Come, infatti, puntualmente osservato dalla Suprema Corte, "alla stregua della L. n. 482 del 1968, art. 10, comma 1, (sulla disciplina generale delle assunzioni obbligatorie), il quale stabilisce l'applicabilità agli assunti in quota obbligatoria del normale trattamento economico e giuridico, è da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità (Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16 aprile 1986, n. 2697)"; dovendosi semmai la diversità di tutela ricondursi ai principi generali in tema di adempimento contrattuale (art. 2087 c.c.) ed al loro diverso atteggiarsi nel caso di un rapporto di lavoro instaurato con un prestatore invalido, assunto obbligatoriamente a norma della L. 2 aprile 1968, n. 482, dovendo, in tal caso, il datore di lavoro, che a norma dell'ex art. 2087 c.c. deve adottare tutte le misure necessarie per l'adeguata tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, in osservanza delle disposizioni della detta legge, far si che le mansioni alle quali il lavoratore invalido viene adibito siano compatibili con la sua condizione (Cass. 4 aprile 1989, n. 4626; Cass. 18 aprile 200, n. 5066; Cass. 7 aprile 2011, n. 7946; Cass. n. 17720/2011)”.
Pertanto, una volta assolto, nei termini sopra indicati, l'obbligo di garanzia della salubrità delle condizioni di lavoro, rapportate, in termini di correttezza e ragionevolezza, alle particolari condizioni di salute del disabile assunto come invalido civile, nessuna diversità di trattamento tra soggetti invalidi e non affetti da disabilità è più consentita, quanto alla determinazione del periodo di comporto.
Diversamente operando, - concordano entrambe le pronunce – l’interesse del lavoratore disabile a conservare il posto di lavoro non sarebbe ponderato con quello del datore di lavoro di garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
In via residuale, entrambi i provvedimenti, pur confermando quanto sopra esposto, ponevano altresì l’accento sulla difficoltà per il datore di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente, comportando ciò un onere di comunicazione a carico di quest’ultimo, il quale avrebbe dovuto produrre certificati medici con indicazione (così come previsto dal D.M. 18 aprile 2012) che lo stato patologico fosse connesso alla situazione di invalidità riconosciuta. Veniva specificato quindi che, nei casi affrontati, nessuna delle ricorrenti aveva prodotto certificati attestanti la riconducibilità della malattia all’invalidità.
Per i su esposti motivi, entrambi i Giudici respingevano le opposizioni proposte dalle ex dipendenti, confermando la legittimità degli operati licenziamenti.