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Il repechage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sentenza Corte di Appello di Lecce Sez. lavoro n. 1402 del 19 giugno 2020
Sonia Gallozzi, Consulente giuslavoristico della Sede nazionale
La pronuncia in commento muove dal ricorso in appello depositato da un’azienda avverso la sentenza con cui il Giudice di prime cure aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a due lavoratori impiegati in un appalto.
Il Tribunale, seppur escludendo la nullità del licenziamento per discriminatorietà e accertata la sussistenza del giustificato motivo oggettivo dei licenziamenti - avendo l’azienda cessato il servizio a cui erano addetti i ricorrenti - aveva tuttavia condannato parte datoriale alla corresponsione della indennità risarcitoria sulla scorta di una presunta violazione dell’obbligo di repechage, il quale, ai sensi dell’art. 2103 c.c., prevede l’obbligo sia di valutare la fungibilità orizzontale delle mansioni, sia la “possibilità di demansionamento al fine di salvaguardare l’occupazione con onere formativo a carico del datore di lavoro nel caso di mutamento delle mansioni con il solo limite - derivante dal principio di correttezza e bona fede - della non eccessiva onerosità dell’incarico formativo”.
In altre parole, secondo il Giudice di prime cure, la società avrebbe dovuto provare che non era possibile riutilizzare i ricorrenti in nessun’altra attività aziendale, neppure utilizzando un investimento formativo che, secondo il decidente, dopo la riforma dell’articolo 2103 c.c., influenzava direttamente gli oneri datoriali in materia di repechage.
Avverso detta pronuncia proponeva appello l’azienda, lamentando, tra l’altro, come il Tribunale avesse omesso di valutare l’attività svolta in sede di cambio appalto, in cui era stata interessata la società subentrante per procedere all’assunzione dei ricorrenti, che veniva fattualmente rifiutata dai lavoratori.
La società censurava altresì la sentenza nella parte in cui sanciva che il datore di lavoro avrebbe dovuto proporre agli appellati una posizione con mansioni assolutamente non fungibili con quelle di autista precedentemente svolte, di fatto, creando un’apposita posizione inferiore e così mutando, per i soli due ricorrenti, l’assetto organizzativo predisposto.
Quanto all’onere formativo a carico del datore di lavoro invocato dal primo giudice, la società, nel rilevare che l’azienda dopo il licenziamento dei due dipendenti non aveva assunto alcuna figura di pari livello degli stessi, evidenziava che “nell’ipotesi in cui le mansioni … richiedano una formazione del lavoratore, queste devono essere escluse dal repechage in quanto non esiste in capo al datore di lavoro alcun obbligo di ulteriore e diversa formazione del lavoratore al fine di preservare il suo posto di lavoro”, essendo tale attività limitata a mansioni rientranti nel bagaglio professionale del dipendente.
Investita della controversia la Corte di Appello di Lecce, questa ha preliminarmente osservato che l’obbligo di repechage, ossia l’onere di dimostrare di non potere ragionevolmente utilizzare il dipendente interessato dal recesso in altre mansioni diverse da quelle che svolgeva, “costituisce una creazione giurisprudenziale tratta dalla esegesi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, formante indiscutibilmente parte del diritto vivente. È unanimemente riconosciuto che esso appartenga alla tematica del giustificato motivo oggettivo del licenziamento e che richieda la prova datoriale ex articolo 5 della legge n. 604 del 1966. La finalità dell’istituto è quella di garantire, attraverso un contemperamento tra l’interesse del datore di lavoro a perseguire una organizzazione produttiva ed efficiente e quello del lavoratore diretto alla stabilità del posto, che il recesso datoriale rappresenti l’extrema ratio cui ricorrere”.
Pertanto, atteso che la possibilità del repechage va condotta con riferimento a mansioni equivalenti, la Corte ha osservato come la società non operasse più nel campo degli appalti di trasporto sangue in cui erano impiegati i ricorrenti e come, al momento del licenziamento degli stessi, fossero in essere solo appalti nel campo della ristorazione, di servizio vending e parafarmacie, in cui non erano presenti delle mansioni fungibili con quelle precedentemente svolte dai due lavoratori.
Di tal che, non avendo l’azienda provveduto all’assunzione di nessun altro lavoratore di quinto livello per coprire eventuali posti vacanti in quanto non più presenti in organico, “non può ritenersi che l’Azienda che proceda al licenziamento di alcuni suoi dipendenti per giustificato motivo oggettivo per cessazione di un appalto o di un servizio sia obbligata addirittura a creare nuovi posti di lavoro presso altri settori di sua competenza per riassorbire i lavoratori risultati in esubero rispetto al nuovo assetto organizzativo dell’impresa”.
L’onere del datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repêchage in mansioni inferiori “non può ritenersi assoluto, atteso che il reimpiego del lavoratore può avvenire solo in mansioni che non necessitino di specifica formazione, posto che il novellato terzo comma dell’art. 2103, c.c., prevede che il mancato adempimento dell’obbligo formativo non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”.
Pertanto, la Corte di Appello, nell’accogliere le istanze di parte datoriale, ha sancito che “l’obbligo di repêchage va dunque riferito limitatamente alle attitudini, al bagaglio professionale ed alla formazione di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento, e cioè a mansioni che non siano disomogenee e incoerenti con la sua competenza, quindi con esclusione dell’obbligo del datore di lavoro di fornire a tale lavoratore un’ulteriore o diversa formazione per salvaguardare il suo posto di lavoro”.