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È possibile stabilire una maggiore durata del periodo di prova rispetto a quanto previsto dal CCNL?
Cass. Civ. Sez. Lavoro ordinanza n. 9789/2020
Sonia Gallozzi, Consulente giuslavorista della Sede nazionale
Pervengono con frequenza quesiti da parte delle strutture associate in merito alla possibilità o meno di convenire con il lavoratore da assumere un periodo di prova maggiore rispetto a quello previsto dal CCNL, in particolare con riferimento ai contratti a tempo determinato, per i quali, con la sottoscrizione in data 8 ottobre 2020 del nuovo CCNL, è stato per la prima volta introdotto tale istituto.
A tal proposito, si specifica che, per i contratti a termine, a differenza di quelli a tempo indeterminato, per i quali l’art. 10 L. 604/1966 prevede che il periodo di prova non possa superare i sei mesi, la normativa vigente nulla dispone, di tal che la durata, ad oggi, è stata sostanzialmente definita a livello giurisprudenziale, in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell'impiego, salvo che essa venga definita a livello di contrattazione collettiva, come nel caso del CCNL AIOP Ospedalità. Solo lo scorso 31 marzo, il Consiglio dei Ministri ha approvato schema di decreto legislativo per l’attuazione della direttiva UE n. 2019/1152, la quale ha stabilito che gli Stati membri fissino una durata massima del periodo di prova non superiore a 6 mesi (limite peraltro già previsto nel nostro ordinamento) e che lo stesso periodo di prova abbia una durata proporzionata in caso di rapporti di lavoro a tempo determinato.
Venendo ora alla questione che ci occupa, com’è noto, il nostro CCNL dispone, all’art. 14, che, per i contratti a tempo indeterminato il periodo di prova non possa superare i tre mesi di calendario per le categorie A e B e sei mesi per le altre categorie; mentre, per i contratti a tempo determinato, che non possa superare un mese di calendario per le categorie A e B e tre mesi per le altre categorie.
Fermo dunque il limite massimo di 6 mesi, che non può essere in alcun caso superato, la giurisprudenza, negli anni, ha affrontato la questione relativa alla possibilità di convenire con il lavoratore, rigorosamente in forma scritta, un periodo di prova superiore rispetto ai termini si cui al CCNL, pervenendo, con una pronuncia chiarificatrice (la n. 9789/2020 oggi in commento) e che, alla stregua delle motivazioni addotte, potremmo definire oramai tombale, caducando precedenti di diverso orientamento, alla conclusione che la clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, in linea generale, è sostituita di diritto ex art. 2077 secondo comma c.c., con quella di cui al CCNL.
L’ordinanza è, tuttavia, di rilevante portata poiché, pur fissando il su riportato criterio generale, sancisce altresì le ipotesi in cui il prolungamento è, invece, da ritenersi legittimo.
Andiamo quindi ad esaminare il caso affrontato dalla Corte, che trae origine dal ricorso depositato da un lavoratore per l’accertamento della nullità del patto di prova della durata di 6 mesi apposto al contratto per lo svolgimento di attività lavorativa all’estero, in quanto di durata maggiore rispetto a quella del CCNL di riferimento.
Il Giudice di prime cure e la Corte di Appello rigettavano la domanda del lavoratore, asserendo che la maggiore durata del periodo di prova apparisse giustificabile considerate le maggiori difficoltà di inserimento del dipendente nel contesto lavorativo di un Paese diverso e distante dall’Italia. Quindi, nella fase di merito veniva considerata legittima, in quanto sostenuta da ragioni plausibili, la clausola derogatoria e peggiorativa della durata del patto di prova prevista dal contratto individuale di lavoro rispetto a quella del CCNL di riferimento. Il lavoratore soccombente ricorreva così in cassazione per la riforma della sentenza.
La Suprema Corte, accogliendo uno dei motivi di ricorso, innanzitutto precisava di aver già avuto modo di affermare “con la sentenza n. 8295 del 2000, che la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto – fermo restando il limite di sei mesi di cui all’art. 10 della legge n. 604 del 1966 – può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova”.
Il Collegio condivideva quindi e ribadiva tale soluzione interpretativa, precisando che, nel caso specifico, “tale minore periodo di tempo fosse stato ritenuto congruo dalle parti sociali in riferimento all’espletamento della prova del dipendente nello svolgimento delle mansioni che lo stesso contratto collettivo contemplava per la categoria di inquadramento e che per sostenerne l’incongruità dello specificato periodo si sarebbe dovuto dimostrare o che le mansioni svolte dal lavoratore fossero sussumibili nella più elevata categoria che contemplava il periodo di prova di sei mesi o perché la particolare complessità delle mansioni da svolgere non consentissero un valido esperimento nell’interesse di entrambe le parti. Una volta esclusa la prima ipotesi, per la dimostrazione dell’incongruità del periodo di prova, tale da consentire un suo prolungamento a livello di contratto individuale e per ritenere che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore del lavoratore, spetta al datore di lavoro fornire la relativa prova, poiché è costui che si avvantaggia di un tempo più lungo per l’esperimento, con una più ampia facoltà di poter licenziare il dipendente per mancato superamento della prova”.
I Giudici di legittimità specificavano infine che “lo sfavore del legislatore verso il patto di prova trova pieno conforto nell'orientamento di questa Corte secondo cui il lavoratore ha interesse a che il periodo di prova sia minimo, o comunque non superi il tempo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale (Cass.5 marzo 1982 n. 1354; Cass.25 ottobre 1993 n. 10587); da ciò discende, in linea di principio, la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali”.
A fronte di tutto quanto sopra, l’impugnata sentenza della Corte d’Appello veniva cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione, per il riesame del merito alla luce dei principi sopra esposti.
Per quanto esposto, nell’ipotesi in cui l’azienda abbia necessità di definire con il lavoratore un patto di prova più lungo rispetto a quello previsto nel CCNL, si consiglia di procedere con la certificazione ex art 75 - 76 del D.Lgs 276/2003.