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Limiti alle indagini difensive nei procedimenti disciplinari
Cass. Sez. Lavoro sentenza n. 18168 del 26 giugno 2023.
Sonia Gallozzi, consulente giuslavorista Sede nazionale
La pronuncia in commento affronta il caso di un dirigente licenziato dopo tre contestazioni disciplinari con le quali, nel 2018, gli era stata addebitata “una condotta di insubordinazione e di violazione dei doveri di diligenza e fedeltà nonché dei generali principi di correttezza e buona fede per avere intrattenuto rapporti e contatti con soggetti riferibili a realtà imprenditoriali in concorrenza e per essersi sottratto ad un accertamento tecnico preventivo, facendo così dubitare della genuinità della malattia posta a fondamento delle assenze”. A monte del licenziamento, quindi, un controllo generalizzato di tutte le comunicazioni sul pc del dirigente e una pratica massiccia di digital forensics e pedinamento.
Il lavoratore impugnava il licenziamento, che veniva dichiarato illegittimo sia in primo grado che innanzi la Corte d’Appello, la quale rilevava che il monitoraggio aveva riguardato "indistintamente tutte le comunicazioni presenti nel pc aziendale in uso e senza limiti di tempo, dando vita così ad una indagine invasiva massiccia ed indiscriminata non giustificata", con una violazione del diritto del lavoratore al rispetto della sua corrispondenza ancora più evidente se si considera che "la società non ha provato di aver preliminarmente informato il lavoratore della possibilità che le comunicazioni che effettuava sul pc aziendale avrebbero potuto essere monitorate né del carattere e della portata del monitoraggio o del livello di invasività nella sua corrispondenza".
La società ricorreva dunque in Cassazione. Orbene, con una articolata sentenza, la Suprema Corte, facendo il punto sullo stato attuale della normativa e giurisprudenza italiana ed europea, confermava il mancato rispetto da parte del datore di lavoro della disciplina dell’art. 8 della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) e della normativa interna, non avendo esso comunicato né tale attività né il campo operativo della sorveglianza.
La Cassazione, a sostegno delle proprie motivazioni, delineava innanzitutto la distinzione tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i lavoratori e che devono essere realizzati nel rispetto dell’art. 4 Statuto dei Lavoratori (accordo sindacale o autorizzazione dell’ispettorato del lavoro) e i controlli anche tecnologici diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili - in base a concreti indizi – a singoli dipendenti (c.d. “controlli difensivi in senso stretto” ) che sono “all'esterno del perimetro applicativo dell'art. 4” dello Statuto dei Lavoratori e non richiedono il preventivo accordo sindacale o l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro. Per quanto riguarda i controlli difensivi in senso stretto i giudici di legittimità ribadivano che gli stessi fossero consentiti solo “in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto”.
Il controllo deve, quindi, essere “mirato” sul singolo lavoratore ed “attuato ex post”, ossia a seguito del comportamento illecito del lavoratore, in quanto “solo a partire da quel momento il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili..”. Nello specifico, deve trattarsi di “indizi, materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo, idonei a concretare il fondato sospetto della commissione di comportamenti illeciti.” Quanto alla nozione di “fondato sospetto”, la Corte cita alcuni riferimenti utili alla sua definizione ed in particolare la giurisprudenza della Corte EDU secondo cui “l'esistenza di un ragionevole sospetto circa la commissione di illeciti", mentre "non è accettabile la posizione secondo cui anche il minimo sospetto di appropriazione illecita possa autorizzare l'installazione di strumenti occulti di videosorveglianza”. Infine, la Corte di Cassazione indica gli elementi utili ad orientare il bilanciamento del giudice italiano nei casi di controlli difensivi “in senso stretto”, e precisamente: i) l’informazione del lavoratore circa la possibilità che il datore di lavoro adotti misure di monitoraggio; ii) il grado di invasività nella sfera privata dei dipendenti, tenendo conto, in particolare, della natura più o meno privata del luogo in cui si svolge il monitoraggio, dei limiti spaziali e temporali di quest'ultimo, nonché del numero di persone che hanno accesso ai suoi risultati; iii) l’esistenza di una giustificazione all'uso della sorveglianza e alla sua estensione con motivi legittimi; iv) la valutazione, in base alle circostanze specifiche di ciascun caso, se lo scopo legittimo perseguito dal datore di lavoro potesse essere raggiunto causando una minore invasione della vita privata del dipendente; v) la verifica di come il datore di lavoro abbia utilizzato i risultati della misura di monitoraggio e se siano serviti per raggiungere lo scopo dichiarato della misura; vi) informazioni ai lavoratori interessati o ai rappresentanti del personale circa l'attuazione e l'entità del monitoraggio.
La Cassazione riteneva dunque illegittima la condotta assunta dall’azienda, confermando la pronuncia di secondo grado.