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Il dipendente può criticare aspramente l’Azienda, purché non diffami
Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 11645/18 del 14 maggio 2018
Sonia Gallozzi, Consulente giuslavorista della Sede nazionale
La pronuncia in commento affronta il caso del ricorso presentato da una lavoratrice licenziata per aver inviato diverse e-mail ai propri superiori, esponendo rimostranze relative alla propria attività lavorativa, dai toni e dai contenuti ritenuti offensivi e denigratori da parte del datore di lavoro.
Il ricorso veniva accolto dal Giudice delle prime cure ed il licenziamento veniva annullato, dando luogo alla tutela reintegratoria. La pronuncia veniva confermata anche in appello, poiché il contenuto aspramente critico delle e-mail inviate della dipendente, veniva attribuito ad una tensione individuale scaturente da un precedente giudizio in itinere tra la dipendente e la società datrice, relativo alle mansioni ed alle differenze retributive.
La reintegrazione è stata confermata anche dalla Suprema Corte, la quale ha ritenuto che la condotta della lavoratrice non fosse esorbitante rispetto il diritto di critica, sussumibile nella libertà di espressione che gode di tutela costituzionale.
Il Giudice di legittimità ha ritenuto che la critica mossa da un dipendente, per quanto aspra, non possa essere occasione di licenziamento per giusta causa, in quanto portata alla società datrice senza utilizzare termini offensivi o comunque inappropriati.
La sentenza in commento, benché sfavorevole a parte datoriale, offre la possibilità di enunciare in estrema sintesi i limiti del diritto di critica del prestatore di lavoro e i relativi confini dell’insubordinazione.
Invero, la Corte ha sottolineato che le rimostranze poste da un lavoratore non possono tradursi in un atto diffamatorio e ingiurioso, tale da compromettere il vincolo fiduciario e da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro (Cfr. Cass. Sez. Lav. 10511/1998).
Inoltre, è utile sottolineare come la Suprema Corte non abbia effettuato una netta distinzione tra la comunicazione privata avvenuta nel caso di specie e la divulgazione pubblica di contenuti potenzialmente diffamatori.
Pertanto, si ritiene che il vulnus della lesione della reputazione di un’impresa o dei suoi dirigenti, non sia da ricondurre alla ipotizzabile diffusione su larga scala del contenuto, bensì alla potenzialità offensiva dello stesso che occorrerà valutare concretamente in base alle circostanze specifiche del caso.