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Licenziato dopo due anni dal fatto. Al lavoratore non spetta la tutela reintegratoria
Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili n. 30985 del 27 dicembre 2017
Sonia Gallozzi, Consulente giuslavorista della Sede nazionale
Lungamente la giurisprudenza si è trovata ad affrontare questioni afferenti licenziamenti disciplinari che, seppur motivati, erano stati contestati dal datore di lavoro con notevole e ingiustificato ritardo, aderendo a due orientamenti contrastanti: il primo negava il carattere sostanziale al vizio di intempestiva contestazione disciplinare, con conseguente applicazione della tutela indennitaria ed un secondo che reputava l'immediatezza della contestazione alla stregua di un elemento costitutivo del licenziamento stesso, la cui mancanza consentiva la tutela reintegratoria, anche nella vigenza del novellato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Sono quindi intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, le quali si sono trovate ad affrontare il caso di un lavoratore che aveva citato in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento, nonché la reintegra nel posto di lavoro, in quanto la contestazione dell’addebito veniva formulatagli con anni di distanza dai fatti di rilevanza disciplinare. Il Tribunale di Arezzo riconosceva, ai sensi dell’art. 18 stat. lav., la tutela indennitaria, non disponendo la reintegra nel posto di lavoro. La Corte d’Appello di Firenze, in riforma della sentenza del Giudice di prime cure, disponeva la reintegra del lavoratore ritenendo che il licenziamento dovesse considerarsi nullo in assenza di contestazione immediata.
Avverso la sentenza della Corte distrettuale il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando l’erroneità dell’applicazione della reintegra nel posto di lavoro in luogo del riconoscimento della mera tutela indennitaria.
La decisione è intervenuta interpretando l’art. 18 della legge n. 300/1970.
Secondo le Sezioni Unite, infatti, la lettura dell’art. 18 non prevede mai la contestazione tardiva tra i vizi che portano alla reintegra nel posto di lavoro sia con riguardo al comma 1 (reintegra oltre al risarcimento non quantificato) che al comma 4 (reintegra oltre ad un risarcimento con un massimo di 12 mensilità).
Così, escluso che la tardività della contestazione dell'illecito disciplinare possa essere sanzionata attraverso il rimedio della tutela reale piena o depotenziata di cui all'art. 18 - nel testo vigente a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 92 del 2012 -, poiché il fatto contestato in forte ritardo risulta, comunque, commesso, resta il problema di stabilire a quale forma di tutela indennitaria far ricorso, se cioè a quella forte, di cui al quinto comma (da 12 a 24 mensilità), o a quella debole, di cui al sesto comma dell'art. 18 della legge n. 300/70 (da 6 a 12 mensilità), che riguarda meri vizi formali.
Le Sezioni Unite partono dall’assunto che “il principio della tempestività della contestazione può risiedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell'inizio del procedimento disciplinare” e dall’altro “dall'esigenza di impedire che l'indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonché quella di tutelare l'affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente”.
Se, dunque, da una parte rileva l'interesse del datore di lavoro al funzionamento complessivo dell'impresa, dall'altra anche il datore di lavoro è tenuto all'osservanza di quei fondamentali precetti che presiedono all'attuazione dei rapporti obbligatori e contrattuali e che sono scolpiti negli artt. 1175 e 1375 cod. civ., vale a dire i precetti di correttezza e buona fede, quanto mai importanti nell'esercizio del potere disciplinare atto ad incidere sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed economiche, ragion per cui deve essere improntato alla massima trasparenza. Quindi, sanciscono gli Ermellini, “se il datore di lavoro viola tali doveri, ritardando oltremodo e senza un'apprezzabile giustificazione la contestazione disciplinare, il problema non è più quello della violazione dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori (violazione meramente formale), quanto piuttosto l'altro della interpretazione secondo buona fede della volontà delle parti nell'attuazione del rapporto di lavoro”, di tal che “la violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è sanzionabile alla stregua del quinto comma del citato art. 18, da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale, secondo il quale il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”.
Tuttavia, occorre segnalare come la pronuncia specifichi che, diversamente, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell'addebito disciplinare (n.d.r. come nel caso del CCNL Aiop), la relativa violazione ricadrebbe nel sesto comma del citato art. 18 che prevede la tutela indennitaria debole, ed ossia da sei e dodici mensilità.