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Le contraddizioni nel DM70: l’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere
Dobbiamo scegliere: salvare il Servizio sanitario nazionale quale bene pubblico o salvare le strutture ospedaliere di diritto pubblico?
Alice Basiglini, Centro Studi e Relazioni internazionali Aiop
“The elephant in the room” dicono gli inglesi quando fanno riferimento a una verità che, per quanto ovvia e palese, viene comunque ignorata.
E il DM 70, nella definizione degli standard ospedalieri utili, nelle premesse, a disegnare razionalmente l’offerta e a favorire una programmazione regionale orientata a criteri di qualità, efficienza, sicurezza ed efficacia, sembra voler girare attorno a una delle questioni madri e mai risolte del nostro Servizio sanitario nazionale: il riconoscimento di una sana competitività tra strutture ospedaliere - a prescindere dalla natura giuridica della proprietà - quale bussola per la garanzia di equo accesso a servizi di provata efficacia clinica.
Parallelamente, si tralascia l’altro elemento fondamentale di una razionalizzazione del sistema basata su requisiti quantitativi, quando operata all’interno di un modello di fatto articolato in 21 sistemi regionali distinti e per nulla parlanti: la responsabilità del livello nazionale di vigilare sull’equità di accesso alle cure, anche attraverso la definizione di reti interregionali.
Nel DM70, ma non solo, si procede a singhiozzi, in modo poco coerente e forse poco coraggioso: il risultato è una tensione incompiuta verso criteri oggettivi, sistematicamente sacrificati sull’altare di principi ideologici, primo fra tutti la tutela della natura pubblica della proprietà.
Se si intraprende la strada di definire criteri evidence-based per la selezione dei centri di cura, devono poi essere questi, e non altri, a stabilire quali siano le strutture chiamate a fornire le prestazioni sanitarie per nome e per conto del SSN. Sicuramente, il requisito della dotazione di posti letto per acuti non inferiore a 60, quale soglia di accreditabilità e di sottoscrivibilità degli accordi contrattuali con le strutture di diritto privato, non presenta alcuna nota associazione con la qualità delle cure erogate. Analogamente, la previsione della terapia intensiva generale, quale standard operativo e strutturale per tutti i punti nascita di I livello - ovvero le maternità che assistono gravidanze e parti fisiologici - non trova alcun fondamento nell’epidemiologia relativa agli eventi avversi materni né nella definizione minima e nella natura stessa della rete Hub and Spoke, considerata il sistema più efficace dell’assistenza perinatale.
Fermo restando che non sia né la qualità né l’efficienza a guidare la determinazione di tali standard, non è dato comprendere quale sia il razionale alla base di questi ed altri requisiti, di cui l’unico effetto sicuro è la compressione del pluralismo tra diversi erogatori e la penalizzazione, senza evidenze a supporto, delle strutture di diritto privato. È evidente, ad esempio, come siano soprattutto le strutture private accreditate a non disporre di terapie intensive generali, per la specificità dell’assistenza fornita e per i vincoli nell’autorizzazione.
È la stessa illogicità che ritroviamo nel c.d. DdL Concorrenza, dove le regole del “mercato” si applicano solo alle strutture di diritto privato e dove la competizione avviene sulla base di criteri di valutazione non ancora noti.
In secondo luogo, se è fondamentale che i requisiti basati su evidenze non siano applicati in modo ingegneristico è perché la letteratura scientifica non fornisce una “soglia magica”, ma un intervallo di riferimento al di fuori del quale il rischio di esiti negativi aumenta significativamente. La scelta del volume minimo di attività è quindi, entro certi limiti, una scelta arbitraria. Andrebbe messa al primo posto la garanzia di accesso a servizi di provata efficacia clinica, a prescindere dall’area di residenza dei pazienti, nonché la valutazione dello stato dell’arte dei volumi di attività erogati e dell’attuale livello di frammentazione della casistica trattata. La soglia minima di 200 interventi/anno indicata nel DM70 per le procedure di by-pass aortocoronarico isolato – laddove la letteratura scientifica di riferimento indica come “punto di svolta” un volume di 100 – non tiene neppure conto dell’evoluzione nella pratica clinica che vede questa procedura spesso associata ad altre (dunque non isolata) e il ricorso a interventi chirurgici alternativi meno invasivi.
Rispetto a questo punto, è centrale capire quale sia - a livello sistemico - il livello di responsabilità che si assume lo Stato nel garantire livelli essenziali di assistenza in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, laddove per molte prestazioni, il cui volume di attività è associato a esiti di salute, la domanda interna a livello provinciale o addirittura regionale non è sufficiente a giustificare la presenza di una struttura sul territorio di residenza né in un raggio di agevole percorrenza.
La grande assente, in un Decreto ministeriale che pone vincoli alla programmazione regionale, è proprio la programmazione nazionale. Quest’ultima è da intendersi sia come costruzione di reti interregionali per l’identificazione di poli di riferimento per il trattamento di condizioni cliniche non sempre riconducibili all’altissima specializzazione, ma comunque caratterizzate da bassa incidenza, sia come governo della mobilità, attraverso la previsione di adeguati meccanismi di sostegno economico e logistico alla migrazione sanitaria.
Questa valutazione è tanto più rilevante se si considera l’estensione degli standard di volume, prevista nella proposta di revisione del DM70, diffusa in autunno 2021, a prestazioni di chirurgia oncologica, caratterizzate da un forte impatto psico-fisico sul paziente.
Dobbiamo scegliere: salvare il Servizio sanitario nazionale quale bene pubblico o salvare le strutture ospedaliere di diritto pubblico?
Quando e se si deciderà a favore della prima opzione, il DM70 - così come il DdL Concorrenza e la disciplina che limita l’acquisto di prestazioni di assistenza ospedaliera - troverà la sua coerenza, a beneficio del SSN e dei suoi utenti. Per ora ci si limita a ignorare l’elefante.