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Notizie dalla Liguria

La scomparsa del Presidente Gustavo Sciachì

Presidente nazionale Aiop dal 1985 al 2000

Lo scorso 25 marzo si è spento l’avvocato Gustavo Sciachì, presidente nazionale Aiop dal 1985 al 2000. Un lungo tratto di strada che rende evidente la grande stima e la fiducia che l’Associazione ha risposto nella sua persona. La sua presidenza ha attraversato il tratto più lungo dei 50 anni della storia dell’Aiop, incidendo profondamente sullo sviluppo dell’Associazione, portandola ad acquisire soprattutto maggiore credibilità e forza nel confronto con le istituzioni regionali e nazionali.

Vietato curarsi negli ospedali migliori

Intervista al Presidente nazionale, Gabriele Pelissero, pubblicata su Il Giornale

«Stiamo scivolando verso una situazione inaccettabile - lancia l'allarme Gabriele Pelissero, presidente dell'Aiop -. Invece di migliorare il livello medio nelle regioni che più zoppicano, si vogliono introdurre filtri e blocchi contro le realtà all' avanguardia. E in questo modo, senza che l' opinione pubblica sia stata informata, si toglierà a migliaia di pazienti il potere di scegliere i centri più evoluti. Penso alle migliaia di persone che oggi puntano a Nord per farsi impiantare una protesi all' anca o al ginocchio».

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Notizie Aiop Nazionale

In sede protetta non è possibile rinunciare a diritti non ancora maturati
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In sede protetta non è possibile rinunciare a diritti non ancora maturati

Cass. Civ. Sez. Lav. n. 6664 del 1 marzo 2022

Sonia Gallozzi, Consulente giuslavorista della Sede nazionale

 

La pronuncia in commento affronta il caso di un lavoratore che, dopo aver impugnato il termine apposto ad un contratto di lavoro della durata di 35 mesi e 18 giorni, sottoscriveva con l’azienda innanzi al Giudice del Lavoro un verbale di conciliazione in forza del quale quest’ultima si impegnava ad assumerlo nuovamente a termine per quattro mesi a fronte della rinunzia, da parte dello stesso, ad avanzare qualsiasi pretesa in relazione a tale secondo contratto.

Il lavoratore, alla scadenza di quest’ultimo rapporto, promuoveva un nuovo giudizio, sostenendo la nullità della conciliazione sottoscritta nel corso della prima causa, chiedendo consequenzialmente la conversione del rapporto a tempo indeterminato, per superamento del termine massimo di durata di trentasei mesi [n.d.r.: ora 24 mesi].

I giudici di merito giudicavano nulle le rinunce effettuate dal ricorrente nel cennato accordo conciliativo in quanto aventi ad oggetto diritti (in particolare, la conversione del rapporto di lavoro al superamento del limite triennale) non ancora sorti.

Ricorreva quindi in Cassazione la società sostenendo, tra l’altro, che “il tetto massimo di 36 mesi di durata dei contratti a termine non ha carattere assoluto ma è derogabile dall’autonomia individuale del lavoratore espressa nelle sedi protette, come si desume dall’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2015 che consente alle parti di stipulare, dopo il termine triennale, un ulteriore contratto della durata massima di 12 mesi purché presso la Direzione Territoriale del lavoro competente per territorio; ha precisato che tale ipotesi derogatoria dovesse considerarsi integrata nel caso di specie in cui il contratto a termine del 2016 è stato oggetto dell’accordo conciliativo concluso dinanzi al giudice del lavoro quindi in condizioni di ancora maggior tutela”.

La Suprema Corte, rigettando i motivi proposti dall’azienda, confermava il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui le rinunzie del lavoratore aventi ad oggetto diritti non ancora entrati a far parte del patrimonio giuridico (c.d. diritti futuri) sono radicalmente nulle poiché contrarie alle norme imperative di legge di cui agli articoli 1418 secondo comma e 1325 c.c., anche nell’ipotesi in cui tali rinunzie siano state sottoscritte nelle sedi protette di cui all’articolo 2.113 c.c., ribadendo chel’art. 2113 uc. c.c. consente in sede protetta le rinunce ma non gli atti regolativi in contrasto con norme imperative. […]la sede protetta non può essere il luogo in cui si consumano le violazioni, cioè si concordano regolazioni contra legem con rinuncia a farle valere ma si può unicamente rinunciare ai diritti già maturati in conseguenza di violazioni realizzate prima e fuori da quella sede”.

Precisava quindi che, al momento della conciliazione, il lavoratore aveva certamente maturato il diritto a far valere l’illegittimità del primo contratto di lavoro a termine (già impugnato e oggetto del primo giudizio), ma non era invece ancora entrato a far parte del patrimonio giuridico del lavoratore il diritto di far valere l’illegittimità del secondo contratto di lavoro a termine per superamento del limite di trentasei mesi [n.d.r.: ora 24 mesi]. A parere della Corte, dunque, il lavoratore aveva rinunciato a tale diritto, non dopo averlo già acquisito, ma nell’atto in cui lo acquisiva, o meglio, col proprio atto dispositivo impediva il sorgere di quel diritto.

Per tali ragioni, secondo la Corte di Cassazione, non si era trattato di una rinunzia, che presupponeva un diritto già maturato in capo al lavoratore, ma di un atto con cui le parti avevano regolato il loro nuovo rapporto di lavoro in modo difforme dalla norma imperativa sui limiti temporali del contratto a termine, con conseguente nullità. Né si poteva applicare l’ipotesi derogatoria di cui all’art. 19, co. 3 D. Lgs. 81/15 (ossia, stipula di ulteriore contratto di 12 mesi presso ITL), trattandosi di un’ipotesi che richiede l’osservanza di un preciso procedimento, posto a tutela dell’eccezionalità dell’ipotesi, e non suscettibile di applicazione analogica.

La Cassazione rigettava dunque il ricorso proposto dalla società.

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